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Tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro: sì alla retribuzione aggiuntiva

SentenzaIl principio secondo cui “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa” non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e deve essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Nel rapporto di lavoro si deve infatti distinguere una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7397 del 13 aprile 2015.

IL FATTO
Il caso trae origine da una sentenza con cui la Corte d’Appello di Roma, in riforma della decisione del Tribunale, ha accertato il diritto di alcuni lavoratori a percepire un compenso per il tempo impiegato quotidianamente e necessariamente per indossare gli abiti obbligatori di lavoro nonché per toglierseli poi a fine lavoro: il cosiddetto “tempo tuta”.

In particolare, la Corte territoriale ha rilevato che nella nozione di lavoro effettivo rientrava anche tutto il tempo impiegato a disposizione e nell’interesse del datore di lavoro e dunque il tempo impiegato dal lavoratore per quelle operazioni strettamente indispensabili all’espletamento dell’attività lavorativa come, per l’appunto, la vestizione degli abiti di lavoro.

La Corte d’Appello ha poi osservato che, in mancanza di elementi certi ed incontrovertibili che permettevano l’esatta individuazione dei tempi quotidianamente utilizzati dai lavoratori per vestirsi e spogliarsi degli abiti da lavoro, doveva procedersi ad una liquidazione del relativo credito in via equitativa. Ha affermato che la misura indicata dai lavoratori di 20 minuti per 45 settimane lavorative era eccessiva e pertanto andava riconosciuto a favore di ciascun lavoratore la metà dell’importo da loro richiesto.

Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società sostenendo, per quanto qui di interesse, che secondo la disciplina di legge deve intendersi per orario di lavoro quello di effettivo svolgimento delle mansioni, “al netto di quello che il lavoratore impiega nello svolgimento di attività preparatorie”, in cui deve includersi il tempo che il lavoratore impiega per preparare se stesso e i propri strumenti allo svolgimento dell’attività lavorativa. Si fa riferimento a questo fine anche alla definizione di orario di lavoro dettata dal D.Lgs. n. 66/2003, di attuazione della disciplina comunitaria, come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio delle sue attività o delle sue funzioni”, per sostenere che nella fattispecie non potrebbe ravvisarsi un esercizio delle funzioni in assenza di una effettiva prestazione. Si afferma poi che gli obblighi normativamente imposti al lavoratore (specie per il personale delle industrie alimentari) di indossare indumenti adeguati e se del caso protettivi, derivano dalla legge e non possono rientrare nell’ambito delle prerogative datoriali, gravando direttamente sul lavoratore; inoltre, che le operazioni in questione non erano predeterminate oggettivamente dal datore di lavoro, perché il personale poteva effettuarle in un arco temporale di massima ovviamente collocato in un momento precedente l’inizio dell’orario di lavoro, ma sulla base di scelte del tutto personali da parte dei dipendenti. I lavoratori avevano facoltà di accedere in azienda fino a 29 minuti prima dell’inizio del turno lavorativo, e potevano impiegare a loro piacimento questo intervallo temporale, come di gestire tempi e modi della vestizione. Si tratterebbe, secondo la società, della cosiddetta diligenza preparatoria in cui rientrano comportamenti che esulano di fatto dalla stretta funzionalità del sinallagma contrattuale.

LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla società. Sul punto, gli Ermellini rilevano come la giurisprudenza della Suprema Corte abbia più volte affermato, in relazione alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 – secondo cui “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa”- il principio secondo cui tale disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa. E’ stato anche precisato che i principi così enunciati non possono ritenersi superati dalla disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 66/03 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale all’art. 1, comma 2, definisce “orario di lavoro” “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”; e nel sottolineare la necessità dell’attualità dell’esercizio dell’attività o della funzione lascia in buona sostanza invariati – come osservato in dottrina – i criteri ermeneutici in precedenza adottati per l’integrazione di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un lavoro effettivo, come tale retribuibile, stante il carattere generico della definizione testé riportata. Criteri che riecheggiano, invero, nella stessa giurisprudenza comunitaria quando in essa si afferma che, per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (Corte Giust. Com. eur., 9 settembre 2003, causa C-151/02, parr. 58 ss.).

Tale orientamento (come osserva Cass. n. 19358/2010) consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104, comma 2, cod. civ.) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva.

Nel caso di specie, la Corte territoriale si è attenuta a questi principi, avendo accertato che le operazioni di vestizione e svestizione si svolgevano nei locali aziendali prefissati e nei tempi delimitati non solo dal passaggio nel tornello azionabile con il badge e quindi dalla marcatura del successivo orologio, ma anche dal limite di 29 minuti prima dell’inizio del turno, secondo obblighi e divieti sanzionati disciplinarmente, stabiliti dal datore di lavoro e riferibili all’interesse aziendale, senza alcuno spazio di discrezionalità per i dipendenti.

Da qui, dunque, l’accoglimento del ricorso.

Il principio secondo cui “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa” non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e deve essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Nel rapporto di lavoro si deve distinguere una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria.

FONTE: lavorofisco.it

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