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Cassazione Penale, Sez. 4, 06 dicembre 2016, n. 51954 – Lavoratore precipita nel vano ascensore. Responsabilità del datore di lavoro e del suo preposto

Fatto: 1. O.R., quale datore di lavoro (essendo amministratore unico della General Contractor S.crl) e R.R. (quale preposto della stessa società) venivano tratti a giudizio, per avere, per colpa generica e specifica, cagionato lesioni gravi a P.T., consistite in fratture multiple allo sterno, alle vertebre, al cranio, comportanti una malattia ed incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore a 40 giorni.
In sintesi, i profili di colpa specifica contestati all’O.R. erano: di aver omesso di redigere il piano operativo di sicurezza relativo al cantiere sito in Bologna via OMISSIS, angolo viale OMISSIS (c.d. edificio ex Telecom); di aver omesso di disporre ed assicurarsi che i lavoratori avessero a disposizione attrezzature adeguate al lavoro da svolgere ed idonee ai fini della sicurezza e della salute, nonché utilizzassero correttamente l’ascensore matricola B0543/51 (attrezzatura di lavoro presente nel cantiere, che i lavoratori utilizzavano per trasportare al piano interrato i materiali che smontavano ai piani superiori); di aver omesso di assicurarsi che tale attrezzatura, messa a disposizione dei lavoratori, fosse stata sottoposta alla manutenzione e verifica periodica al fine di garantirne nel tempo la rispondenza ai requisiti previsti dalla normativa vigente.
I profili di colpa specifici contestati al R.R. erano di avere omesso di disporre ed assicurarsi che i lavoratori utilizzassero correttamente l’ascensore citato, di sottoporlo alla prevista manutenzione e verifica periodica, e comunque di assicurarsi che tale attrezzatura, messa a disposizione dei lavoratori, fosse stata sottoposta alla manutenzione e verifica periodica al fine di garantirne nel tempo la rispondenza ai requisiti previsti dalla normativa.
2. Ad esito di giudizio dibattimentale il Tribunale di Bologna con sentenza 17/9/2012 dichiarava O.R. e R.R., nelle rispettive qualità, colpevoli del reato di lesioni personali gravi, commesso ai danni di P.T. in Bologna il 31/7/2006 ed aggravato dalla violazione della normativa in materia antinfortunistica, condannandoli alla pena (condizionalmente sospesa) ritenuta di giustizia, oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, cui assegnava una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 75 mila (al cui pagamento subordinava la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena).
3. La Corte di appello di Bologna con la sentenza impugnata – in parziale riforma della sentenza 17/9/2012 del Tribunale di Bologna – ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dei predetti per essere i reati ascritti estinti per intervenuta prescrizione, confermando tuttavia le statuizioni civili della sentenza di primo grado.
4. Avverso la sentenza della Corte territoriale propongono direttamente ricorso gli imputati O.R. e R.R., deducendo violazione dell’art. 578 c.p.p. e vizio di motivazione laddove erano state confermate le statuizioni civili della sentenza di primo grado.
Al riguardo, i ricorrenti deducono che il principio di economia processuale, in base al quale l’art. 129 impone di dichiarare la causa estintiva del reato in assenza della prova ictu oculi dell’innocenza, va coordinato – nel caso in cui, come per l’appunto nella specie, nel giudizio di primo grado vi era stata condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile – con la disposizione di cui all’art. 578 c.p.p., che, secondo la giurisprudenza di legittimità, prevede che il giudice di appello, nel caso sussista costituzione di parte civile, nel dichiarare estinto il reato (per amnistia o per prescrizione) per il quale in primo grado è intervenuta condanna, deve comunque valutare: da un lato, se sussistano gli estremi del reato dal quale la parte civile fa discendere il proprio diritto al risarcimento e, dall’altro, se tale diritto effettivamente sussista.
Nel caso di specie la Corte di appello aveva errato nel confermare automaticamente le statuizioni civili, non potendosi trovare conferma della condanna al risarcimento del danno dalla mancata prova dell’innocenza degli stessi secondo quanto previsto dall’art. 129 comma 2 c.p.p. In altri termini, nel caso di specie, la Corte di appello aveva verificato la sussistenza degli elementi della fattispecie penale (ed aveva preso in esame le doglianze contenute nell’atto di appello) al fine di escludere la possibilità di una assoluzione nel merito ai sensi dell’art. 129 comma 2, ma, ignorando le doglianze difensive articolate in appello, non aveva verificato la sussistenza dei presupposti necessari per la conferma delle statuizioni civili, come invece richiesto dall’art. 578 c.p.p.: ai fini della operatività dell’art. 129 comma 2 è sufficiente accertare che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato, mentre, ai fini dell’operatività dell’art. 578 c.p.p., occorre accertare positivamente, sia pure ai soli effetti civili, la sussistenza della responsabilità penale dell’imputato e la sussistenza del diritto al risarcimento del danno, di talché la motivazione che sorregge l’una decisione non può valere anche per l’altra.
5. In vista dell’odierna udienza, tramite difensore di ufficio, depositano breve nota entrambi gli imputati, nella quale tornano a lamentarsi che la Corte di appello di Bologna non aveva speso alcuna parola in ordine alla fondatezza o meno dei motivi di impugnazione contenuti negli atti di appello ed insistono nell’annullamento con rinvio della impugnata sentenza.
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Diritto:
1. Il ricorso non è fondato e lambisce la S. della inammissibilità.
2. Può essere utile ricordare che il Tribunale di Bologna, dopo aver ripercorso le risultanze processuali, ha ricostruito la dinamica del sinistro, nel senso che il P.T. era precipitato dal secondo piano all’interno del vano ascensore. Ciò in quanto le porte al suo piano erano aperte (o erano state facilmente aperte), mentre il montacarichi si trovava (o era stato fatto salire) al piano superiore.
Così ricostruito il sinistro nel suo nucleo essenziale, il Giudice di primo grado ha affermato la penale responsabilità:
a) del R.R., osservando che: questi lavorava come capo cantiere alle dipendenze della “ST General Contractor”, di cui amministratore unico era l’O.R. e la proprietà della società faceva capo alla S. Giuseppe & Figlio s.n.c. ed alla Tirrenia Costruzione s.p.a., entrambe riconducibili al S.; il R.R. aveva ricevuto dall’O.R., nel giugno precedente, l’incarico di occuparsi degli allacciamenti acqua e Enel prima che fossero intrapresi i lavori di ristrutturazione dell’immobile e, quindi, si trovava in cantiere su incarico dell’O.R., suo datore di lavoro; per svolgere l’incarico affidatogli aveva ingaggiato lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno e senza regolarizzazione del rapporto di lavoro; quale datore di lavoro, quantomeno di fatto, su di lui gravavano gli specifici obblighi di garanzia e salvaguardia dell’Integrità fisica dei lavoratori; in violazione di tali obblighi, aveva messo a disposizione dei dipendenti un impianto, quale l’ascensore – montacarichi, che aveva fatto riattivare in modo approssimativo e pericoloso;
b) dell’O.R., osservando che: sull’O.R., già come datore di lavoro del preposto R.R., gravavano gli specifici obblighi di protezione e garanzia dei lavoratori; un dipendente dell’O.R., quale era il R.R., non poteva aver deciso in autonomia e senza darne notizia al superiore, di impegnarsi in un’attività lunga e complessa come quella di smantellare uno stabile di quelle proporzioni (non si trattava, infatti, di liberare l’immobile solo degli arredi e dalle suppellettili, bensì di “svuotare” lo stabile di tutto ciò che potesse avere un interesse economico, quali gli impianti elettrici, i pavimenti galleggianti, i termosifoni, le porte, le pareti attrezzate); tali lavori, avuto riguardo alla dimensione dell’immobile, erano destinati a durare per molte settimane; non era quindi ipotizzabile che un intervento di tale genere potesse essere svolto all’insaputa dell’O.R. né che questi non avesse dato direttive in ordine a quanto smantellare o, invece, lasciare in loco; il R.R. non poteva aver ipotizzato di poter far trovare, all’atto dell’inizio dei lavori di ristrutturazione, un’immobile completamente svuotato senza che preventivamente l’O.R. fosse stato informato; lo stesso ing. T., nel corso della sua deposizione al dibattimento, aveva lasciato intendere di aver poi appreso dall’O.R. che il R.R. era “l’incaricato per la logistica” in quel cantiere per conto della S. Group e che, dunque, avrebbe dovuto “occuparsi dell’organizzazione del cantiere”; il cantiere nel palazzo “Ex Telecom” nel mese di luglio non era ancora formalmente aperto, eppure il R.R. ne aveva avuto le chiavi dall’O.R. e l’incarico di operarvi sin dal mese di giugno; O.R., quindi, aveva colposamente omesso di verificare come e con quali mezzi il suo preposto stesse provvedendo agli interventi preliminari per l’organizzazione del cantiere “Ex Telecom”; l’O.R., pur avendo affidato l’edificio al R.R., conferendogli informale ampio mandato, si era colposamente disinteressato di come il suo preposto stesse procedendo per consentire la realizzazione del cantiere; anche O.R. era tenuto a garantire lo svolgimento del lavoro in sicurezza e, inoltre, di esercitare il doveroso controllo sul suo operato.
3. Orbene, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, la Corte di appello di Bologna non ha affatto confermato automaticamente le statuizioni civili, contenute nella sentenza di primo grado, e men che meno si è limitata a verificare la sussistenza degli elementi della fattispecie penale al fine di escludere la possibilità di una assoluzione nel merito ai sensi dell’art. 129 comma 2 (senza per l’appunto verificare la sussistenza dei presupposti necessari per la conferma delle statuizioni civili, come invece richiesto dall’art. 578 c.p.p.).
Invero, la Corte di appello ha confermato il giudizio di penale responsabilità di R.R., osservando che: a) la ricostruzione alternativa dei fatti offerta dalla difesa – secondo la quale i due cittadini rumeni P.T. e Gi. avrebbero litigato ed il secondo avrebbe spinto il primo nella tromba dell’ascensore attraverso le porte che erano aperte – non era accoglibile: detta ricostruzione alternativa valorizzava a fini difensivi l’equivoco in cui i testi erano caduti in relazione al piano in cui si sarebbe trovato l’ascensore al momento del fatto; ma le discrepanze tra i testi (se il montacarichi fosse al secondo o al terzo piano) erano da ricondurre alla mancata valutazione, da parte di coloro i quali avevano descritto il montacarichi fermo al secondo, della presenza del piano interrato, evidentemente non conteggiato; b) inconferente era il richiamo alla relazione dell’ing. Fa., responsabile dell’Unità Operativa Impiantistica – Antinfortunistica dell’Azienda USL di Bologna, in quanto il montacarichi era stato rimesso in opera in modo rudimentale e l’apertura delle porte dello stesso modificata in modo tale che potesse avvenire mediante la forzatura del sistema di blocco mediante un cacciavite o, addirittura, prevedendo che le stesse rimanessero aperte; pertanto, delle due l’una: o il P.T. era caduto perché era stato in grado di aprire la porta del montacarichi quanto questo non si trovava al piano, oppure era caduto nella tromba del montacarichi perché la porta era già aperta, malgrado lo stesso non di trovasse al piano; entrambe le dinamiche andavano ricondotte alle modifiche fatte apportare dal R.R. all’impianto, tali da privarlo di qualunque requisito di sicurezza.
La Corte di appello ha confermato altresì il giudizio di penale responsabilità di O.R., osservando che: a) l’O.R. non poteva ignorare quanto il suo preposto stava compiendo all’interno dello stabile da ristrutturare; b) se i compiti che avevano giustificato l’intervento del R.R. nell’Immobile Ex Telecom fossero stati soltanto preparatori – allacciamenti dell’energia elettrica e dell’acqua corrente – in vista della successiva preparazione del cantiere, non si spiegava perché tali incarichi sarebbero stati conferiti addirittura nel mese di aprile, laddove, secondo i testi della difesa e lo stesso odierno ricorrente, la predisposizione del cantiere e l’inizio dei lavori di ristrutturazione sarebbero iniziati dopo il mese di agosto; c) non era verosimile che un’impresa fosse disposta a pagare il costo degli allacciamenti elettrici ed idrici per vari mesi senza che nessuna attività debba essere svolta; d) il datore di lavoro non poteva ignorare le attività che, per lungo tempo, dal conferimento dell’incarico, il suo capocantiere stava svolgendo nell’immobile; anzi, lo stesso O.R. aveva un interesse diretto e puntale allo svolgimento delle opere “abusive” di smantellamento poste in essere dal suo capocantiere (consistenti nel liberare – a basso costo, grazie all’attività predatoria posta in essere dal R.R. con l’utilizzo di manodopera irregolare – l’immobile prima dell’avvio ufficiale dei lavori).
In definitiva, la sentenza di secondo grado – dopo aver ripercorso analiticamente i motivi di appello di entrambi gli odierni ricorrenti (pp. 8-11) – non ha affatto confermato la condanna al risarcimento del danno (anche solo generica) sulla base del presupposto della mancata prova dell’innocenza dell’imputato, secondo quanto previsto dall’art. 129 comma 2 cod. proc. pen., ma – in conformità a principi più volte affermati da questa Corte (Sez. 5, sent. n. 10952 del 09/11/2012, 2013, Gambardella, Rv. 255331; Sez. 6, sent. n. 31464 del 08/06/2004, De Sapio, Rv. 229385) – ha confermato le statuizioni civili, contenute nella sentenza di primo grado, sulla base di una adeguata rivalutazione del materiale probatorio e dopo un attento esame dei motivi di impugnazione proposti da entrambi gli imputati.
Ne consegue che i ricorsi devono essere rigettati ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.: Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 15/11/2016.

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