☎ 0871/411530   ✉ info@abruzzoconsulting.it   ⌂ Via D. Spezioli, 16 (Theate Center) - 66100 Chieti (CH)

  •  
  •  
  • Home
  • /News
  • /Cassazione Civile, Sez. Lav., 02/12/2015, n. 24538 – L’obbligo di un ambiente salubre è un obbligo anche nei confronti del collaboratore coordinato che per l’esecuzione del contratto debba operare all’interno dell’impresa

Cassazione Civile, Sez. Lav., 02/12/2015, n. 24538 – L’obbligo di un ambiente salubre è un obbligo anche nei confronti del collaboratore coordinato che per l’esecuzione del contratto debba operare all’interno dell’impresa

Sentenza…” Sulla questione posta in via generale dal ricorrente dell’ambito della garanzia delle condizioni di sicurezza dell’ambiente di lavoro posta a carico dell’imprenditore, deve comunque puntualizzarsi che è vero che questa Corte ha in più occasioni affermato che l’art. 2087 c.c. riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro subordinato, presupponendo l’inserimento del prestatore di lavoro nell’impresa del soggetto destinatario della prestazione (così Cass. n. 9614 del 16/07/2001, n. 8522 del 2004 n. 7128 del 21/03/2013).
Tuttavia, la predisposizione di un ambiente salubre ed esente da rischi costituisce a carico dell’imprenditore un obbligo anche nei confronti del collaboratore coordinato che per l’esecuzione del contratto debba operare all’interno dell’impresa, da cui deriva una responsabilità di natura contrattuale, nonché una possibile responsabilità penale (v. in particolare la Cass. pen., n. 35534 del 14/05/2015, n. 42465 del 09/07/2010, n. 37840 del 01/07/2009).
Tale obbligo è disciplinato a livello normativo, considerato che l’art. 66 comma 4 del D.lgs. n. 276 del 2003 prevede che al lavoratore a progetto si applicano le norme sulla sicurezza e igiene del lavoro di cui al decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive modifiche e integrazioni, quando la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente. La disposizione è stata abrogata dall’art. 52 comma 1 del D.lgs n. 82 del 2015, e continua ad applicarsi solo ai contratti già in atto, ma l’art. 2 prevede che per i rapporti stipulati a far data dal 1.1.2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato (quindi, anche con riferimento alla normativa prevenzionistica) anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Inoltre, con specifico riferimento ai medici specialisti ambulatoriali, l’art. 21 del D.P.R. 28 luglio 2000, n. 271, recante il Regolamento di esecuzione dell’accordo collettivo nazionale, prevede espressamente che “le Aziende sono tenute ad attuare tutte le misure idonee alla tutela della salute ed alla integrità fisica e psichica dello specialista ambulatoriale; sono tenute altresì ad applicare tutte le leggi vigenti in materia”.”

Presidente: VENUTI PIETRO Relatore: GHINOY PAOLA Data pubblicazione: 02/12/2015

Fatto

L.B., medico specialista ambulatoriale interno a tempo indeterminato nella branca di oncologia presso la Usi n. 7 di Siena a decorrere dal 1 luglio 1983, denunciava di fronte al Tribunale di Montepulciano le condotte dell’Azienda sanitaria senese, a suo dire “mobbizzanti”, che assumeva avergli provocato danni sia patrimoniali che non patrimoniali dei quali chiedeva giudizialmente il ristoro, unitamente alla reintegrazione nella qualifica e nelle mansioni nell’ attività specialistico-oncologica. In particolare riferiva che nell’anno 1996 la sua attività specialistica ambulatoriale era stata trasferita dal presidio ospedaliero di Chianciano Terme a Chiusi, in una struttura ed in spazi del tutto inadeguati. Deduceva, ancora, che a partire dall’anno 1998 gli era stata preclusa la possibilità di trasformare il suo rapporto con la Usl in rapporto di lavoro pubblico, così come gli erano stati negati l’ampliamento dell’orario di lavoro e la partecipazione a progetti oncologici. Successivamente, nell’anno 2003, le 20 ore settimanali di attività specialistico- oncologica erano state trasformate in 16 ore settimanali di attività ambulatoriale nelle cure primarie – per la quale egli non aveva pregressa esperienza – e solo 4 di attività specialistica.
Il Tribunale di Montepulciano, pur riconoscendo che al rapporto di parasubordinazione intrattenuto dal ricorrente con l’azienda sanitaria non era applicabile l’art. 2087 c.c., ravvisava nella condotta posta in essere dalla Asl 7 di Siena la violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli articoli 1175 e 1375 del codice civile; riconosceva quindi al medico ricorrente il risarcimento dei danni quantificati in euro 13.000 per danno biologico, sulla base della c.t.u. che aveva accertato postumi permanenti invalidanti nella misura del 10%, euro 10.400,00 per danno esistenziale ed euro 5.100,00 per danno morale, per un totale quindi di euro 28.500. Rigettava invece le ulteriori domande di reintegrazione nelle mansioni e di risarcimento del danno patrimoniale.
La Corte d’appello di Firenze con la sentenza n. 535 del 2009 andava di contrario avviso e, in accoglimento dell’appello proposto dall’Azienda Usl n. 7 di Siena, rigettava la domanda proposta dal L.B.. La Corte premetteva che nel rispetto del principio di cui all’articolo 2697 del codice civile, inapplicabile essendo l’art. 2087 c.c., incombeva sull’attore l’onere di provare i fatti costitutivi delle domande spese in giudizio, ed in particolare che l’azienda sanitaria si fosse resa inadempiente ad una serie di precisi obblighi o comunque avesse violato il canone di correttezza e buona fede imposto dagli articoli 1175 e 1375 del codice civile; tale onere tuttavia il L.B. non aveva assolto, risultando per contro che le condotte lamentate erano state adottate dalla ASL nel legittimo esercizio dei poteri organizzativi ed in conformità con la normativa del settore.
Con riferimento al trasferimento dall’ospedale di Chianciano al presidio distrettuale di Chiusi, argomentava che era stato determinato dal piano regionale previsto per la Val di Chiana per il periodo di riferimento, che aveva comportato un diverso assetto dei servizi, tra i quali quello ambulatoriale oncologico, sicché gli eventuali inconvenienti non potevano ritenersi posti in essere al fine di penalizzare il ricorrente. Quanto ai presunti ostacoli frapposti ad una maggiore utilizzazione del dottor L.B. nel settore oncologico, riferiva che era già stato accertato in precedente controversia promossa dal medesimo ricorrente che la deliberazione del 12 marzo 1998, di dar corso all’attribuzione di 10 ore nella specialità oncologica in regime ambulatoriale convenzionato, cui il solo ricorrente aveva aderito, non aveva avuto seguito in quanto nelle more del bando era intervenuta la delibera numero 18 del Consiglio regionale della Toscana, che prevedeva la gestione dell’assistenza oncologica tramite l’unità operativa di oncologia medica da parte di medici dipendenti, delibera cui la Usi n. 7 di Siena aveva l’obbligo di conformarsi. La Corte di merito aggiungeva che le rivendicazioni dell’appellante sia di fronte al giudice ordinario che a quello amministrativo, con le quali si chiedeva che fosse accertata l’illegittimità della revoca del bando del 1998 per l’assunzione di quattro medici dipendenti specialisti in oncologia, erano state ritenute infondate. L’ultimo episodio, avente ad oggetto la riduzione da 20 a 4 ore di attività ambulatoriale nel settore specialistico oncologico, derivava poi dal fatto, riferito dalle deposizioni testimoniali, che vi era stata una prolungata e documentata riduzione delle prestazioni specialistiche ambulatoriali rese dal dottor L.B., determinata dal fatto che l’utenza preferiva rivolgersi a strutture operanti in regime di day-hospital presso presidi ospedalieri; né erano risultate provate le carenze tecnico- organizzative dell’azienda sanitaria che ad avviso del ricorrente sarebbero state all’origine della contrazione delle prestazioni presso l’ambulatorio di Chiusi.
Per la cassazione della sentenza L.B. ha proposto ricorso, affidato a 5 motivi, cui ha resistito con controricorso e memoria ex art. 378 c.p.c. l’Azienda USL n. 7 di Siena.

Diritto

1. Preliminarmente occorre rilevare la tardività del controricorso per superamento dei termini previsti dall’art. 370 c.p.c.: l’atto risulta infatti essere stato consegnato per la notifica agli Ufficiali Giudiziari in data 7.9.2011, quando il ricorso era stato notificato in data 11.5.2010. Segue l’inammissibilità del controricorso e della memoria ex art. 378 c.p.c,, essendo la parte ai sensi del I comma dell’art. 370 c.p.c. facoltizzata esclusivamente a partecipare alla discussione orale.
2.1 motivi di ricorso possono essere così riassunti:
2. 1. Il primo, lamenta violazione o falsa applicazione dell’art 2087 c.c., dell’art. 21 del d.p.r. 271/2000, dell’art 1218 c.c. e dell’art 2697 c.c., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere ritenuto la Corte territoriale inapplicabile la disposizione dell’art. 2087 c.c. al caso di specie, nonostante l’espressa qualificazione contrattuale dell’obbligo di sicurezza violato dall’Azienda sanitaria USL n. 7 di Siena.
Ad avviso del ricorrente, un’interpretazione della norma conforme alla Costituzione, alla Carta di Nizza ed al Trattato CE non consentirebbe una limitazione del suo ambito di applicazione al solo rapporto di lavoro subordinato; invero la norma tutelerebbe l’integrità psico-fisica di ogni lavoratore, anche parasubordinato. L’ applicazione dell’art 2087 c.c. al rapporto di collaborazione coordinata e continuativa si giustificherebbe altresì per la prevalente personalità della prestazione che caratterizza tale rapporto di lavoro, nonché per il fatto che l’art. 21 del DPR n. 271 del 2000 impone l’adozione da parte della ASL di tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e psichica dello specialista ambulatoriale.
In secondo luogo, il ricorrente contesta la falsa applicazione dell’art 1218 e dell’art. 2697 c.c. per aver ritenuto la Corte d’ appello che “non trovando applicazione la norma dell’art. 2087 c.c., il dott. L.B. avrebbe dovuto provare l’inadempimento dell’azienda convenuta ai propri obblighi nascenti dalla convenzione o comunque una condotta della stessa, nell’esecuzione del contratto, contraria ai principi di correttezza e buona fede”. La statuizione della Corte d’appello sarebbe erronea e contraria al disposto di cui all’art 1218 c.c., poiché sarebbe stata la A.S.L. 7 a dover dimostrare il corretto adempimento ai propri obblighi di protezione.
2.2. Il secondo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1218, 1229, 1375 e 2697 c.c. in combinato disposto con l’art. 21 d.p.r. n. 271/2000 ed assume che la Corte d’appello, stante la non applicazione dell’art. 2087 c.c., ha erroneamente considerato la responsabilità imputata all’Azienda di natura extracontrattuale, onerando il ricorrente della prova dell’inadempimento ai doveri di correttezza e buona fede; a suo dire, invece, avrebbe dovuto trovare applicazione il regime di cui all’art 1218 c.c.. Deduce poi che la sentenza sarebbe viziata dalla violazione degli arti 1175, 1176, 1375 c.c. relativi ai doveri di correttezza e buona fede nonché dalla violazione degli obblighi di sicurezza di cui all’art. 21 del d.p.r. 271/2000.
2.3. Il terzo lamenta violazione degli artt. 345, 115, 116 e 441 c.p.c., omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio per avere la Corte d’appello ritenuto insufficienti le dichiarazioni testimoniali rese nel giudizio di primo grado in merito alla condotta vessatoria tenuta nei confronti del ricorrente.
2.4. Il quarto motivo lamenta il vizio di motivazione per avere la Corte di merito ritenuto legittima la condotta tenuta dalla Azienda Sanitaria USL n.7 di Siena, la quale avrebbe agito in ottemperanza di precise direttive e provvedimenti legislativi e amministrativi emanati a livello regionale.
Il giudice di secondo grado avrebbe erroneamente valutato le risultanze probatorie acquisite nella prima fase del giudizio, dalle quali apparirebbe evidente la condotta mobbizzante posta in essere dal datore di lavoro.
In particolare, ad avviso del ricorrente, sarebbe stato dimostrato che il L.B. era stato costretto ad operare in condizioni di notevole disagio ambientale ed organizzativo; che era stato trasferito presso il presidio di Chiusi, struttura non idonea alla cura oncologica, “con fredda e lucida premeditazione”; che la professionalità del L.B. non era mai stata valorizzata; che gli era stata negata ogni possibilità di incrementare la propria convenzione di ulteriori 10 ore e che, anzi, era stata disposta la riduzione dell’orario della convenzione stessa.
Il ricorrente, dopo aver trascritto integralmente i fatti posti a fondamento della propria pretesa (pagg. 25 — 33), assume che la decisione della Corte sarebbe contraddittoria per avere ritenuto che essi fossero giustificati da una complessiva ristrutturazione delle prestazioni assistenziali e per avere dato attuazione a direttive previste da norme sovraordinate.
2.5. Il V motivo lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 4, d.p.r. n. 271/2000, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere la Corte d’appello ritenuto legittima la riduzione delle ore nella branca dell’oncologia da 20 a 4 disposta con comunicazione prot. n. 3961 del 30 dicembre 2003 e per avere ritenuto legittima l’assegnazione, per complessive ore 16, della branca delle cure primarie, e quindi, per avere escluso la sussistenza della dequalificazione subita dal ricorrente successivamente al 30 dicembre 2003 e del conseguente suo diritto al risarcimento del danno.
Deduce, in primo luogo, l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto legittima la riduzione dell’attività specialistica da 20 a 4 ore, in quanto l’amministrazione non avrebbe rispettato una serie di presupposti formali e sostanziali prodromici al provvedimento di riduzione dell’orario della convenzione del medico specialista ambulatoriale previsti dal citato d.p.r..
Quanto alla presunta illegittimità sostanziale della procedura, sostiene che la riduzione dell’orario non avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie, poiché la sua esigua attività era imputabile a deficienze strutturali dell’Azienda. L’art 5 del citato decreto stabilisce sul punto che “L’azienda non adotta il provvedimento di riduzione dell’orario previsto dal comma 1, qualora la contrazione dell’attività sia dipendente da specifiche carenze tecnico-organizzative dell’Azienda sempreché lo specialista le abbia evidenziate per iscritto ed in tempo utile ai responsabili del presidio…”.
Quanto al profilo formale, il ricorrente deduce la violazione dei presupposti individuati all’art. 4 poiché l’azienda avrebbe disposto la riduzione di ore prima ancora di esperire la verifica relativa all’utile collocazione nella branca dell’oncologia in ambito aziendale o interaziendale. Ancora, la ASL avrebbe erroneamente interpretato la normativa regionale di riferimento in campo oncologico (Linee guida e piano sanitario regionale 1998-2001). Al riguardo richiama la corrispondenza intercorsa con l’allora assessore alla Sanità, il quale avrebbe evidenziato, a suo dire, la presenza di spazi operativi per gli specialisti ambulatoriali.
3. Il ricorso presenta plurimi evidenti lacune che ne determinano 1’inammissibilità.
3.1. Occorre in primo luogo ribadire, con Cass. n. 24597 del 19/11/2014, che l’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dall’art. 6 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, contenente la previsione della formulazione del quesito di diritto in relazione al vizio di violazione di legge e del c.d. momento di sintesi in relazione al vizio di motivazione come condizione di ammissibilità del ricorso per cassazione, si applica “ratione temporis” ai ricorsi proposti avverso sentenze e provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2 marzo 2006 (data di entrata in vigore del menzionato decreto), e fino al 4 luglio 2009, data dalla quale opera la successiva abrogazione della norma, disposta dall’art. 47 della legge 18 giugno 2009, n. 69.
Nel caso, malgrado la sentenza gravata sia stata pubblicata il 26.5.2009, mancano in tutti i motivi sia l’uno che l’altro.
3. 2. Nei motivi n. 1, 3 e 5, inoltre, le censure di cui all’art. 360, nn. 3 e 5, sono state indebitamente cumulate, senza una chiara distinzione logica e argomentativa dei profili attinenti alle ime rispetto a quelli attinenti alle altre (v. per l’inammissibilità di tale fattispecie Cass. n. 19443 del 23/09/2011, n. 12248 del 20/05/2013).
3.3. Il quarto motivo, infine, che ha ad oggetto il solo vizio di motivazione, ripropone pressoché integralmente 1’ iniziale prospettazione dei fatti e richiede una nuova valutazione degli stessi, come si ricava anche dall’inciso “La corretta valutazione delle risultanze sia istruttorie, sia documentali, avrebbe imposto di trarre la conclusione che la finalità della condotta tenuta nei confronti del ricorrente era quella di determinare l’esclusione dall’organizzazione delle prestazioni assistenziali, tanto da arrivare alla revoca”. Il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c. (pur nella formulazione vigente ratione temporis, anteriore alla modifica introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. nella L. n. 134/2012), non equivale però a revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione del giudice del merito per una determinata soluzione della questione esaminata, posto che essa comporterebbe un giudizio di fatto, risolvendosi in una sua nuova formulazione, contrariamente alla finizione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità: con la conseguente estraneità all’ambito del vizio di motivazione della possibilità per questa Corte di procedere a nuovo giudizio di merito attraverso un’autonoma e propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. 28 marzo 2012, n. 5024; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694).
4. Sulla questione posta in via generale dal ricorrente dell’ambito della garanzia delle condizioni di sicurezza dell’ambiente di lavoro posta a carico dell’imprenditore, deve comunque puntualizzarsi che è vero che questa Corte ha in più occasioni affermato che l’art. 2087 c.c. riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro subordinato, presupponendo l’inserimento del prestatore di lavoro nell’impresa del soggetto destinatario della prestazione (così Cass. n. 9614 del 16/07/2001, n. 8522 del 2004 n. 7128 del 21/03/2013).
Tuttavia, la predisposizione di un ambiente salubre ed esente da rischi costituisce a carico dell’imprenditore un obbligo anche nei confronti del collaboratore coordinato che per l’esecuzione del contratto debba operare all’interno dell’impresa, da cui deriva una responsabilità di natura contrattuale, nonché una possibile responsabilità penale (v. in particolare la Cass. pen., n. 35534 del 14/05/2015, n. 42465 del 09/07/2010, n. 37840 del 01/07/2009).
Tale obbligo è disciplinato a livello normativo, considerato che l’art. 66 comma 4 del D.lgs. n. 276 del 2003 prevede che al lavoratore a progetto si applicano le norme sulla sicurezza e igiene del lavoro di cui al decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive modifiche e integrazioni, quando la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente. La disposizione è stata abrogata dall’art. 52 comma 1 del D.lgs n. 82 del 2015, e continua ad applicarsi solo ai contratti già in atto, ma l’art. 2 prevede che per i rapporti stipulati a far data dal 1.1.2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato (quindi, anche con riferimento alla normativa prevenzionistica) anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Inoltre, con specifico riferimento ai medici specialisti ambulatoriali, l’art. 21 del D.P.R. 28 luglio 2000, n. 271, recante il Regolamento di esecuzione dell’accordo collettivo nazionale, prevede espressamente che “le Aziende sono tenute ad attuare tutte le misure idonee alla tutela della salute ed alla integrità fisica e psichica dello specialista ambulatoriale; sono tenute altresì ad applicare tutte le leggi vigenti in materia”.
Ne risulta quindi una visione unitaria della tutela del diritto alla salute, in coerenza con gli artt. 32 Cost., e 1, comma primo, della L.n. 833 del 1978, nonché con i principi fatti propri dal l’Unione Europea che soccorrono qui in via interpretativa, ed in particolare (oltre che con gli artt. 151 e 153 del Trattato sul funzionamento dell’unione europea, ex artt. 136 e 137 del TCE, richiamati nel ricorso, che prevedono che l’Unione sostiene e completa l’azione degli Stati membri nel miglioramento dell’ambiente di lavoro per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori), con la Raccomandazione del Consiglio del 18 febbraio 2003, relativa al miglioramento della protezione della salute e della sicurezza sul lavoro dei lavoratori autonomi, che al punto 1) raccomanda agli Stati membri di promuovere, nel quadro delle loro politiche di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, la sicurezza e la salute dei lavoratori autonomi, tenendo conto anche della specificità della relazione tra gli stessi e le imprese contraenti.
4.1. Occorre però aggiungere che neppure qualificando la responsabilità della ASL come contrattuale la domanda del L.B. avrebbe potuto essere accolta, considerato che quello che ne ha determinato il rigetto, secondo la valutazione delle risultanze di causa operata dalla Corte di merito, è stata proprio la mancanza di illegittimità della condotta datoriale, ovvero che i poteri organizzativi attribuitile siano stati esercitati dalla ASL illegittimamente o con sviamento dagli scopi loro propri o siano stati concatenati tra loro in finizione persecutoria, sicché difettava nel caso lo stesso elemento dell’inadempimento alle obbligazioni contrattuali che costituisce il presupposto per la responsabilità risarcitoria.
3. Segue il rigetto del ricorso e la condanna del soccombente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come da dispositivo con
riferimento alla sola fase della discussione orale, per quanto riferito al punto 1. che precede.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 1.500,00 per compensi professionali, oltre ad € 100,00 per esborsi ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2015

image_pdfimage_print
  • Condividi con i tuoi amici!