Cassazione Penale – Nessuna parete protettiva dello scavo: morte del datore di lavoro appaltatore. Responsabilità del CSE

Fatto:
1. – Con sentenza del 9 marzo 2012, la Corte di Appello di Bari ha confermato la pronuncia di primo grado con la quale – per quanto qui rileva – l’imputato odierno ricorrente era stato assolto, con la formula «perché il fatto non sussiste», dal delitto di omicidio colposo, a lui contestato come commesso nella qualità di coordinatore per l’esecuzione delle opere, avendo consentito che F.S. scendesse all’interno di uno scavo effettuato per la posa in opera di tubi di acqua e fogna, senza che esso fosse provvisto di pareti protettive, sicché lo stesso rimaneva travolto, mentre si trovava all’Interno dello scavo, a circa tre metri di profondità, da un improvviso smottamento del terreno che lo seppelliva, cagionandone la morte (il 26 aprile 2002).
Secondo la Corte d’appello, l’incidente era da ricondurre alla mera imprudenza della vittima che era sceso nello scavo, senza alcuna effettiva esigenza della lavorazione. In particolare, dall’istruttoria svolta (deposizioni, c.t. del pubblico ministero, perizia d’ufficio in appello), era emerso che: la vittima era il titolare della ditta che stava effettuando lo scavo ed era il dominus dei lavori al momento dell’incidente; lo scavo era finalizzato alla posa di tubazioni di fognatura; il lavoro veniva effettuato da un escavatore e la necessità di entrare all’interno dello scavo vi era solo dopo il posizionamento delle tubazioni, per procedere all’aggancio del nuovo tubo a quello già posizionato; al momento dell’incidente, il tubo non era stato ancora posizionato e quindi nessuna necessità tecnica imponeva al F.S. di scendere nello scavo; poco prima del fatto la vittima aveva ordinato di sospendere il lavoro ed aveva detto ad un operaio che andava giù per un bisogno fisiologico; tale condotta era connotata da assoluta abnormità, considerato che il F.S. era il titolare della impresa e, quindi, aveva piena consapevolezza del rischio di accedere allo scavo.
2. – Su ricorso del Procuratore generale e delle parti civili, la Corte di cassazione, sez. 4, con sentenza del 25 giugno 2013, n. 42501, ha annullato con rinvio la decisione di secondo grado. La Corte di cassazione ha, in particolare, evidenziato che: a) i lavori, alla data dell’incidente, erano in corso da circa quindici giorni e che, dalla perizia di ufficio, era emerso che i lavoratori scendevano abitualmente nello scavo, per livellare il piano della trincea, sganciare i tubi dalla loro imbracatura al momento della posa, controllare il loro posizionamento, provvedere al raccordo dei vari tronconi; b) benché il lavoro fosse avviato da tempo, lo scavo continuava a non essere provvisto di pareti laterali di sostegno; c) trovava applicazione, nel caso di specie, il d.P.R. n. 164 del 1956, art. 13, comma 1 (vigente all’epoca dei fatti), secondo cui, «Nello scavo di pozzi e di trincee profondi più di m 1,50, quando la consistenza del terreno non dia sufficiente garanzia di stabilità, anche in relazione alla pendenza delle pareti, si deve provvedere, man mano che procede lo scavo, all’applicazione delle necessarie armature di sostegno»; d) la Corte distrettuale ha errato nel ritenere che le armature delle pareti non fossero necessarie, pur in presenza di una pluralità di operazioni che richiedevano la discesa dei lavoratori nello scavo, con ciò facendo erronea applicazione del citato art. 13, che deve essere interpretato nel senso che «l’obbligo di provvedere all’applicazione di armature di sostegno delle pareti, quando la consistenza del terreno non dia sufficienti garanzia di stabilità, sussiste a partire dal momento in cui lo scavo raggiunge la profondità di metri uno e cinquanta e deve essere adempiuto prima di procedere oltre nell’escavazione, occorrendo, inoltre, man mano che si procede nello scavo, provvedere al contemporaneo armamento (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 1588 del 10/10/2001 Ud. (dep. 16/01/2002), Rv. 220650)».
3. – Nel giudizio di rinvio scaturito da tale annullamento, la Corte d’appello di Bari, con la sentenza qui impugnata (del 7 gennaio 2015) ha ritenuto sussistente la responsabilità penale, e la conseguente responsabilità civile dell’imputato, dichiarando non doversi procedere in ordine al reato, per essere lo stesso estinto per prescrizione, e condannando l’imputato al risarcimento del danno subito dalle parti civili, da determinarsi in separato giudizio, con liquidazione di provvisionali.
4. – Avverso tale ultima pronuncia l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
4.1. – Il ricorrente formula, in primo luogo, istanza di sospensione dell’esecuzione della condanna civile ex art. 612 cod. proc. pen.
4.2. – In secondo luogo, la difesa deduce l’erronea applicazione degli artt. 5 e 13 del d.lgs. n. 494 del 1996. Non si sarebbe tenuto conto del fatto che la vittima, soggetto dotato di grande esperienza professionale, era scesa nello scavo di sua iniziativa, per espletare una funzione fisiologica, in mancanza di qualsivoglia necessità tecnica che richiedesse la sua presenza o quella di altri all’interno dello scavo. Egli era anche il responsabile per la sicurezza della sua azienda ed aveva redatto, in tale veste, il piano di sicurezza. La difesa sostiene, altresì, che durante la fase di scavo con escavatore meccanico a cucchiaio non è possibile armare le pareti dello scavo perché a nessuno è consentito di scendere nello scavo per nessun motivo. Dunque, l’incidente si è verificato dopo che la stessa vittima, soggetto responsabile della sicurezza del cantiere, aveva ordinato di fermare lo scavo ed era scesa fermandosi in una zona di rispetto dov’era rigorosamente vietato sostare e dove non era stato possibile armare la parete, per espletare una funzione fisiologica. Dalla perizia di ufficio sarebbe emerso che F.S. era il soggetto che aveva il compito di procedere autonomamente all’armatura delle pareti laterali o di segnalare al direttore dei lavori o al coordinatore per l’esecuzione la situazione di fatto presente. Non si poteva, dunque, sostenere che la fase di scavo fosse terminata al momento del sinistro e non si era in presenza di un’attività in cui la discesa dell’uomo nello scavo era prevista in relazione alla tipologia delle lavorazioni da eseguire. In ogni caso, non sarebbe stata richiesta una costante presenza in cantiere del coordinatore per l’esecuzione dei lavori, il quale non aveva, dunque, l’obbligo giuridico di impedire l’evento.
4.3. – La difesa ha presentato motivi aggiunti, con cui ribadisce che il coordinatore per l’esecuzione dei lavori è titolare di una posizione di garanzia che si affianca a quelle degli altri soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche, ma non si estende al puntuale controllo, momento per momento, delle singole attività lavorative.

Diritto:
5. – Il ricorso è infondato.
5.1. – Deve preliminarmente rilevarsi che, con ordinanza del 2 febbraio 2016, la quarta sezione di questa Corte ha dichiarato inammissibile la richiesta di sospensione della esecuzione della condanna civile ex art. 612 cod. proc. pen.
5.2. – Va poi osservato che, nell’affermare la responsabilità penale dell’imputato, la Corte d’appello si è correttamente attenuta ai principi di diritto enunciati dalla Corte di cassazione con la sentenza 25 giugno 2013, n. 42501; principi che non possono essere messi in discussione questa sede, in quanto affermati in via definitiva in relazione al caso di specie (artt. 627 e 628 cod. proc. pen.).
5.2.1. – Come sopra ricordato, la Corte di cassazione ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 13 del d.P.R. n. 164 del 1956, vigente all’epoca dei fatti, sul rilievo che vi erano attività che si svolgevano con la discesa dei lavoratori nello scavo non armato, espressamente vietata da tale disposizione, oltre che dal piano di sicurezza. Ha anche evidenziato che «l’assenza di armature aveva pacificamente interessato anche le parti di scavo ove già era stata effettuata la posa delle tubazioni, dal che si evince che l’omissione del presidio era frutto di una precisa scelta aziendale operata dalla stessa vittima in qualità di datore di lavoro appaltatore». Ha inoltre affermato che la violazione in questione ha concretizzato il rischio che la disposizione mirava a prevenire, anche a fronte di una discesa della vittima nello scavo, non dettata da esigenze di lavoro, ma per un bisogno fisiologico. Infatti, nel caso di specie, il rischio era presente, conosciuto e segnalato nel piano di sicurezza e la circostanza che l’incidente sia avvenuto non in un momento di posa delle tubazioni non esclude la causalità della violazione delle norme di prevenzione, in quanto l’ambiente di lavoro era insicuro e solo il caso ha determinato lo smottamento del terreno in un dato momento piuttosto che in un altro. E, del resto, questa Corte di legittimità ha più volte ribadito la necessità di garantire la sicurezza dell’ambiente di lavoro, indipendentemente dalla attualità della attività e, quindi, anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro (ex plurimis, Cass. Sez. 4, n. 2989 del 26/02/1992, Rv. 189650; Sez. 4, n. 8004 del 31/05/1994, Rv. 199686); perfino per danni che possano derivare a terzi e non ai lavoratori addetti (ex plurimis, Sez. 4, n. 23147 del 17/04/2012, Rv. 253322; Sez. 4, n. 9616 del 19/03/1991, Rv. 188214).
Quanto alla responsabilità dell’imputato, soggetto coordinatore per l’esecuzione dei lavori, la sentenza di annullamento con rinvio ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, secondo cui, in materia di infortuni sul lavoro, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, oltre ad assicurare il collegamento fra impresa appaltatrice e committente al fine di realizzare la migliore organizzazione, ha il compito di vigilare sulla corretta osservanza delle prescrizioni del piano di sicurezza da parte delle stesse e sulla scrupolosa applicazione delle procedure a garanzia dell’incolumità dei lavoratori nonché di adeguare il piano di sicurezza in relazione alla evoluzione dei lavori, con conseguente obbligo di sospendere, in caso di pericolo grave e imminente, le singole lavorazioni (ex plurimis, Sez. 4, n. 18651 del 20/03/2013, Rv. 255106; Sez. 4, n. 46820 del 26/10/2011, Rv. 252139).
In applicazione di tali principi, la stessa Corte di cassazione e la Corte d’appello investita del giudizio di rinvio hanno sottolineato che, poiché i lavori erano in corso da circa due settimane e la circostanza dell’assenza delle pareti dello scavo era visibile ictu oculi, l’imputato avrebbe dovuto pretendere il rispetto delle misure di sicurezza, eventualmente fino all’esercizio dei poteri a contenuto impeditivo, cioè fino ad ordinare la sospensione dei lavori. Né costituisce idonea giustificazione l’allegazione difensiva circa la deviazione di un tratto dello scavo in zona ove il terreno era meno compatto. Infatti era onere del coordinatore controllare l’iter dei lavori; inoltre la necessità della presenza di presidi alle pareti era già segnalata nei piani di sicurezza e quindi prescindeva da un’eventuale deviazione dello scavo.
La sentenza di annullamento e la sentenza della Corte territoriale chiariscono, infine, che il coordinatore per l’esecuzione, in materia di sicurezza sul lavoro, è titolare di una autonoma posizione di garanzia che, nei limiti degli obblighi specificamente individuati dalle disposizioni vigenti, si affianca a quelle degli altri soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche (si richiama Cass. Sez. 4, n. 38002 del 09/07/2008, Rv. 241217). Ne consegue che l’incidente deve essere ritenuto conseguenza di una pluralità di autonome condotte eziologicamente legate all’evento, tra le quali quella della stessa vittima, che ha posto in essere una condotta gravemente imprudente pur essendo pienamente conscio dei relativi rischi, e del coordinatore per la esecuzione delle opere.
5.2.2. – In tale quadro devono essere valutate le censure del ricorrente, che – come anticipato – appaiono in larga parte dirette a contestare principi già affermati dalla Corte di cassazione e recepiti dalla Corte d’appello con la sentenza impugnata.
La difesa deduce la violazione degli artt. 5 e 13 del d.lgs. n. 494 del 1996, laddove la fattispecie concreta è invece disciplinata, secondo quanto ritenuto nella sentenza di annullamento, dall’art. 13 del d.P.R. n. 164 del 1956; disposizione la cui accertata violazione è incontestabile in questa sede. Svolge, poi, considerazioni circa l’occasionalità e  l’imprevedibilità della condotta della vittima, soggetto dotato di grande esperienza professionale, che era sceso nello scavo di sua iniziativa, per espletare una funzione fisiologica, e che era anche il responsabile per la sicurezza della sua azienda ed aveva redatto, in tale veste, il piano di sicurezza. Ma anche tali rilievi si pongono in diretto contrasto con quanto affermato dalla Corte di cassazione circa la configurabilità di un contributo causale della vittima, che non esclude, però, il nesso causale fra l’omissione dell’imputato e l’evento (principi correttamente richiamati dalla Corte territoriale alle pagg. 16 e 17 della sentenza impugnata). Analoghe considerazioni valgono per le critiche difensive relative alle modalità di svolgimento dell’attività di scavo. In particolare, trova puntuale smentita negli atti di causa – come valutati dalla Corte d’appello e prima ancora dalla Corte di cassazione – l’affermazione secondo cui durante la fase di scavo con escavatore meccanico a cucchiaio non sarebbe possibile e, comunque, non sarebbe necessario armare le pareti dello scavo, perché a nessuno sarebbe consentito di scendere nello scavo per nessun motivo. Risulta, infatti, pacifico che gli operai scendessero nello scavo non armato per svolgere una serie lavorazioni, analiticamente descritte in sentenza.
E infondato risulta anche il rilievo difensivo – ulteriormente precisato con i motivi aggiunti ricorso – secondo cui non sarebbe stata richiesta una costante presenza in cantiere del coordinatore per l’esecuzione dei lavori, il quale non aveva, dunque, l’obbligo giuridico di impedire l’evento.
Non vi è dubbio che il coordinatore per l’esecuzione dei lavori abbia un’autonoma funzione di alta vigilanza circa la generale configurazione delle lavorazioni che comportino rischio interferenziale, e che non sia, però, tenuto anche ad un puntuale controllo, momento per momento, delle singole attività lavorative, che è invece demandato ad altre figure operative (datore di lavoro, dirigente, preposto), salvo l’obbligo, oggi previsto dall’art. 92, lettera f), del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, di adeguare il piano di sicurezza in relazione all’evoluzione dei lavori e di sospendere, in caso di pericolo grave e imminente direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti da parte delle imprese interessate (Sez. 4, n. 27165 del 24/05/2016, Rv. 267735). Nondimeno, dalla ricostruzione effettuata dalla Corte d’appello (pag. 16 della sentenza impugnata) emerge che l’imputato non aveva svolto neanche la funzione di alta vigilanza cui era tenuto, tanto che non aveva riscontrato alcun pericolo grave e imminente in relazione alle lavorazioni, né aveva imposto limitazioni o richiesto particolari adeguamenti, semplicemente perché egli non era mai stato visto sul cantiere durante l’esecuzione dei lavori; cosicché mai si era direttamente accertato della consistenza degli stessi, pur in presenza di un scavo non armato e di lavoratori che svolgevano lavorazioni all’Interno dello stesso.
6. – Il ricorso deve essere dunque rigettato con condanna del ricorrente al pagamento elle spese processuali, nonché alla rifusione in favore delle parti civili costituite
Omissis, in proprio e quale esercente la potestà sui figli minori, e Omissis, delle spese sostenute nel grado, da liquidarsi complessivamente in euro 4.500,00, oltre spese generali e accessori di legge.

P.Q.M.: Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento elle spese processuali, nonché alla rifusione in favore delle parti civili costituite Omissis, in proprio e quale esercente la potestà sui figli minori, e Omissis, delle spese sostenute nel grado, che liquida complessivamente in euro 4.500,00, oltre spese generali e accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2016.

FONTE: Cassazione Penale