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Cassazione: si al licenziamento a seguito della cancellazione di tutti i documenti dal computer

legalCassazione Civile, Sez. Lav., 14 maggio 2015, n. 9900 – Licenziamento a seguito della cancellazione di tutti i documenti dal computer: non configurabilità del mobbing.

Fatto

1. Con sentenza depositata in data 7 ottobre 2011, la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello proposto da S.D’A. contro la sentenza resa dal Tribunale della stessa sede, che aveva rigettato la domanda dell’appellante avente ad oggetto la condanna della G.Promomarketing s.r.l. (poi incorporata nella J. Marketing Solutions s.p.a.) al pagamento di emolumenti collegati al rapporto di lavoro tra gli stessi intercorso, la declaratoria dell’inefficacia o illegittimità del licenziamento intimato dalla datrice di lavoro, con la condanna di quest’ultima alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ovvero alla sua riassunzione in caso di non applicabilità della tutela reale, nonché la condanna al risarcimento dei danni conseguenti al mobbing di cui il S.D’A. era stato vittima.
2. La Corte territoriale statuiva (per quanto qui ancora di interesse) che non erano stati provati: a) lo svolgimento da parte del lavoratore di mansioni aggiuntive, quale quello di business development manager, sicché nulla doveva essergli riconosciuto a titolo di “compenso aggiuntivo; b) lo svolgimento di lavoro straordinario; c) il mobbing lamentato. Con riguardo al licenziamento, ne affermava la legittimità sia sotto il profilo del rispetto delle garanzie procedimentali sia sotto quello della sussistenza della giusta causa, in quanto il fatto addebitato al lavoratore, e costituito dall’aver cancellato tutti documenti di lavoro dal suo computer, era risultato provato. Tale condotta, oltre ad essere astrattamente inquadrabile nella fattispecie penale di cui all’art. 635 bis c.p., rientrava nella previsione degli artt. 146, comma 2°, e 151 del C.C.N.L., in forza dei quali il lavoratore, in caso di grave violazione dell’obbligo di conservare diligentemente le merci e materiali dell’impresa, può essere licenziato.
3. Contro la sentenza, il S.D’A. propone ricorso per cassazione, fondato su nove motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso la J. Marketing Solutions s.p.a.

Diritto

1. Va in primo luogo disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione degli artt. 360 e 360 bis c.p.c, sollevata dalla controricorrente: i motivi di ricorso sono sufficientemente specifici, rientrano nelle ipotesi previste dall’art. 360 c.p.c. e non risulta denunciata in modo manifestamente infondato alcuna violazione dei principi regolatori del giusto processo, sicché non sussistano i presupposti per la pronuncia ai sensi del a 2, dell’art. 360 bis c.p.c. (Cass., 15 maggio 2012, n. 7558).
2. Con i primi tre motivi, il ricorrente denuncia l’omessa, errata e contraddittoria valutazione delle prove, nonché la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c, in relazione alle domande volte ad ottenere il compenso per le mansioni aggiuntive e per il lavoro straordinario svolti dall’1/4/2003 al 31/12/2004, nonché il risarcimento del danno da mobbing. Assume che la Corte territoriale non avrebbe considerato i consistenti elementi di prova, testimoniale e documentale, da cui erano emersi i fatti costitutivi delle sue pretese.
3. Con il quarto motivo denuncia l’errata valutazione delle prove e la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 legge n. 300/1970 e dell’art. 2 legge n. 604/1966, con riferimento alla genericità della contestazione e all’omesso esame dell’eccezione di invalidità del licenziamento per mancata comunicazione dei motivi. In particolare, lamenta che, non essendo stati indicati specificamente i documenti cancellati, gli era stato impedito di valutare se effettivamente essi avessero un valore ed un’importanza essenziale per lo svolgimento dell’attività lavorativa e, quindi, per valutare la gravità della sua condotta e la proporzionalità della sanzione.
4. Con il quinto motivo denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 7 legge n. 300/1970, dell’art. 2697 cc, degli artt. 112, 416 e 437 c.p.c, con riferimento alla questione della mancata affissione del codice disciplinare. In particolare, deduce che, fin dal ricorso introduttivo del giudizio, egli aveva eccepito tale circostanza e la convenuta, dopo aver dedotto che il codice era presente nella rete ultranet della società, non aveva ulteriormente contestato la sua eccezione, né aveva provato il suo assunto. In ogni caso, tale modalità di affissione del codice era del tutto inadeguata a soddisfare il requisito della pubblicità. Quanto alla seconda affermazione della Corte, secondo cui l’affissione non era necessaria, poiché la condotta ascrittagli costituiva una violazione del cosiddetto “minimo etico”, il ricorrente rileva che tale questione non era mai stata sollevata dalla convenuta e, sotto tale aspetto, la decisione si poneva in violazione dell’art. 112 c.p.c. Aggiunge che, comunque, non essendosi in presenza di un illecito penale, la condotta addebitatagli doveva essere necessariamente prevista da un codice disciplinare, da rendere conoscibile attraverso le modalità previste dall’art. 7 citato.
5. Con il sesto motivo denuncia la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 7 legge n.300/1970 e dell’art.2 legge n. 604/1966, in ragione della violazione del principio di immutabilità dei motivi di licenziamento e della conseguente sua illegittimità. Rileva, infatti, che nella memoria difensiva la convenuta aveva allegato fatti mai contestati nella lettera di licenziamento, ivi compresa la sua partecipazione ad una società svolgente attività concorrenziale con la datrice di lavoro.
6. Con il settimo motivo denuncia l’errata, omessa e contraddittoria motivazione in ordine all’accertamento dei fatti addebitati, nonché la violazione dell’art. 437 c.p.c, per il mancato svolgimento di attività istruttoria. Si duole della sentenza nella parte in cui a) ha ritenuto provata e non contestata la cancellazione di tutti documenti di lavoro dal suo computer; b) ha ritenuto non provata l’esistenza di un CD-ROM su cui egli aveva riversato i dati cancellati dal computer aziendale, circostanza questa confermata dal teste C. e specificamente dedotta nella lettera di giustificazione prodotta in giudizio (doc. 38, pag. 2, punti 17-18); b) ha ritenuto che il messaggio inviato al ricorrente di cancellare i dati riguardasse esclusivamente le e-mail, non anche l’ulteriore documentazione; e) non aveva valutato che, a seguito della cancellazione dei dati, aveva ricevuto i complimenti del responsabile informatico, d) che inoltre tutti documenti erano stati archiviati nella banca dati aziendali denominata “in touch” e che comunque erano stati recuperati; che, pertanto, difettava la prova della gravità e irreparabilità del danno cagionato.
7. Con l’ottavo motivo, denuncia l’omessa e contraddittoria motivazione sulla giusta causa, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 2118 cc, anche sotto il profilo del difetto di proporzionalità. Ribadisce quanto già affermato nel precedente mezzo ed aggiunge, quanto al supposto svolgimento da parte sua di un’attività concorrenziale con la datrice di lavoro, che si trattava di una circostanza non provata e comunque mai fatta oggetto di contestazione. Peraltro, egli aveva chiesto di provare la diversità delle attività svolte dalla società di cui era socio rispetto a quelle della J. Marketing. Infine, in merito, infine, all’utilizzo del computer per finalità personali, il giudice non aveva tenuto conto del fatto che esso si riduceva alla mancata richiesta di autorizzazione per l’installazione di un programma, dato che il regolamento aziendale prevedeva la possibilità di utilizzo del computer per motivi personali.
8. Infine, con il nono motivo, denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 146 e 151 ceni commercio e deduce che la sua condotta non rientrava nel combinato disposto delle due norme.
9. I primi tre motivi, di cui appare opportuna la trattazione congiunta in ragione della connessione che li lega, sono inammissibili. Con riguardo ai dedotti vizi di violazione di legge, l’inammissibilità sta nel fatto che la ricorrente non indica quale affermazione della Corte territoriale sia in contrasto con le norme indicate, in particolare con gli artt. 416 e 437 c.p.c. Per ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360, n. 3, c.p.c, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di “errori di diritto” individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, (cfr. Cass., 26 giugno 2013, n. 16038; Cass., 8 marzo 2007, n. 5353; Cass., 19 gennaio 2005, n. 1063; Cass., 6 aprile 2006, n. 8106).
10. In merito ai vizi motivazionali denunciati, la ragione dell’inammissibilità sta nel difetto di autosufficienza delle censure, avendo la parte trascritto solo per stralcio le deposizioni testimoniali che assume non valutate o mal valutate, non indica dove le dette deposizioni sarebbero attualmente rinvenibili, mediante la precisa indicazione del verbale di causa in cui sarebbero state raccolte e della sua attuale allocazione nei fascicoli di parte o d’ufficio delle pregresse fasi del giudizio, non riporta, neppure per sintesi, il contenuto dei documenti della cui mancata o erronea valutazione si duole. Tali omissioni violano il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in ossequio al quale il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’ autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative. (Principio affermato ai sensi dell’art. 360 bis, comma 1, cod. proc. civ.). (Cass., 30 luglio 2010, a 17915). Infine, ciò vale anche con riguardo al mancato esercizio da parte del giudice del merito dei suoi poteri istruttori, non avendo la parte precisato quando, come e dove avrebbe sollecitato, ed in che termini, i poteri istruttori ufficiosi del giudice del merito (Cass., 16 maggio 2002, n. 7119).
11. Infine, i motivi sono inammissibili dal momento che con essi la parte intende far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito alla sua personale opinione e, in particolare, prospetta un soggettivo, migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti: tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e degli apprezzamenti del fatto, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo rilevanti ai sensi dell’art. 360, comma 1°, n. 5 cod. proc. civ. Diversamente il motivo del ricorso per cassazione si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate e, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice dì merito, cui non può imputarsi di aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e la disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono richieste (ex plurimis, Cass., 25 maggio 2006, n. 12446; Cass., 6 febbraio 2007, n. 2577).
12. Peraltro, nel caso in esame, la Corte ha svolto un ragionamento congruo ed esaustivo, oltre che sorretto da precisi riferimenti alle evidenze istruttorie acquisite nel corso del giudizio, escludendo che al ricorrente sia mai stata attribuita la superiore qualifica di general development manager – e, conseguentemente, negandogli il diritto ai compensi aggiuntivi – , così come ha ritenuto indimostrato lo svolgimento di lavoro straordinario, in considerazione del dato accertato che il S.D’A. non aveva l’obbligo della doppia timbratura ed era pertanto libero di entrare in orari non predeterminati, nonché della mancanza di prova di una durata della prestazione lavorativa eccedente i limiti della ragionevolezza in rapporto alla tutela, costituzionalmente garantita, del diritto alla salute. Anche in ordine al mobbing, la motivazione è completa e priva di interne contraddizioni, poiché i giudici del merito hanno accertato l’insussistenza in concreto di una condotta vessatoria tenuta dalla datrice di lavoro ai danni del ricorrente, avendo ritenuto insussistenti gli elementi sintomatici del mobbing indicati dal ricorrente, come la disponibilità di una segretaria personale che gli sarebbe stata poi inopinatamente sottratta; l’esclusione dalla partecipazione a riunioni (giacché queste in realtà riguardavano i dirigenti e non anche i quadri, come il ricorrente), la mancata stipulazione di un contratto promosso dal S.D’A., essendo essa conseguita ad una valutazione di convenienza della datrice di lavoro, e non già sorretta da fini meramente ritorsivi.
13. Il quarto motivo è infondato. La Corte, anche qui con ragionamento congruo ed esaustivo, ha ritenuto specifica la contestazione, non solo per la ragione che il lavoratore è stato in grado di difendersi adeguatamente, quanto piuttosto per il contenuto stesso della lettera di contestazione, con cui si è addebitata al lavoratore la distruzione di tutti i documenti aziendali presenti sul suo computer, ivi compresa la corrispondenza elettronica. Ogni ulteriore specificazione sarebbe stata, pertanto, a giudizio della Corte, superflua. Va poi rilevato che il canone della specificità, nella contestazione dell’addebito, non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell’accusa nel processo penale, ma esso è rispettato ogniqualvolta assolva alla funzione di consentire al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa (Cass., 30 dicembre 2009, n. 27842; Cass., 3 marzo 2010, n. 5115). Diritto di difesa che, nella specie, è stato compiutamente esercitato.
14. Anche il quinto motivo è infondato. Va ricordato che, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, non è necessaria la previa affissione codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (Cass., 3 ottobre 2013, n, 22626; Cass., 29 agosto 2014, n. 18462).
15. In applicazione del suddetto principio, il giudizio espresso dalla Corte circa il disvalore sociale della condotta tenuta dal lavoratore, – poiché ha ritenuto intrinseco ai doveri di fedeltà e diligenza del lavoratore quello di non distruggere i beni aziendali, tra cui rientrano senz’altro i documenti informatici, rimarcando che tale condotta costituisce reato ex art. 635 bis c.p. -, appare congruo e motivato, rientrando nel potere del giudice di merito di apprezzare i fatti e di inquadrarli nell’esatta cornice normativa, senza che con ciò possa dirsi violato il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (cfr. sul potere del giudice di convertire il licenziamento per giusta causa ih licenziamento per giustificato motivo soggettivo, senza violare il principio di corrispondenza tra il chiesto il pronunciato v. Cass., 9 giugno 2014, n. 12884).
16. A fronte, invero, dell’immutabilità dei fatti oggetto di contestazione, la qualificazione della condotta ascritta al lavoratore e la sua inclusione nel concetto di “minimo etico” – piuttosto che tra le violazioni di prassi operative o disposizioni aziendali per le quali è necessaria l’inclusione nel codice disciplinare e la sua pubblicità -, richiedono un’attività valutativa da parte dell’interprete tramite valorizzazione di fattori esterni relativi alla coscienza generale, che non può essere censurata ih sède di legittimità allorquando detta applicazione rappresenti la risultante logica e motivata della specificità dei fatti accertati e valutati nel loro globale contesto. Rimane, invece, praticabile il sindacato di legittimità per vizio ex art. 360 n. 3 c.p.c. in quei casi in cui gli standards valutativi, sulla cui base è stata definita la controversia, finiscano per collidere con i principi costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, ed, infine, anche in quei casi in cui i suddetti standards valutativi si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la Costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta – come vero e proprio “diritto vivente” (così, Cass., 17 agosto 2004, n. 16037). Nel caso in esame, la decisione della Corte d’appello risulta pronunziata all’esito di una attenta valutazione del materiale probatorio ed è la risultante di un iter argomentativo sorretto da una esauriente e logica motivazione.
17. Il sesto motivo è infondato. Il principio di immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7 dello statuto lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati e situati a distanza di tempo dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro. (Cass., 19 gennaio 2011, n. 1145). Nel caso in esame, la circostanza relativa alla partecipazione del lavoratore ad altra società è stato valorizzato dalla Corte non già come causa autonoma del licenziamento bensì come circostanza sintomatica della inaffidabilità del dipendente e della lesione del vincolo fiduciario. Risulta così assorbita la questione circa la mancanza di prova dello svolgimento di una attività in concorrenza con la società, trattandosi di circostanza non decisiva.
18. Gli ultimi tre motivi di ricorso sono, in parte, inammissibili e, in parte, infondati.
19. Va in primo luogo rilevato che la Corte territoriale ha accertato che l’ordine di cancellare i dati riguardava solo i messaggi di posta elettronica e non anche l’ulteriore documentazione presente nel computer del lavoratore, mentre ha ritenuto non provate le giustificazioni addotte da quest’ultimo, e, in particolare, il fatto di aver riversato tutti i dati su un CD-ROM messo a disposizione della società. Quanto alla circostanza dedotta dal ricorrente, secondo cui la società avrebbe comunque recuperato tutti dati da lui cancellati, la Corte territoriale l’ha espressamente smentita, dando rilievo alle deposizioni testimoniali da cui era emerso che la società aveva potuto recuperare solo parte dei files cancellati attraverso il sistema back up.
20. Tali accertamenti, in quanto sorretti da precise risultanze processuali (in particolare le deposizioni dei testi Omissis), sono insindacabili in questa sede. Nei motivi di ricorso, così come nella memoria ex art. 378 c.p.c, il lavoratore insiste diffusamente (negandole) sulle indicate circostanze, ritenendo che sul punto la Corte territoriale sarebbe incorsa in un travisamento dei fatti, che invece sarebbero diversi secondo quanto desumibile dalle deposizioni dei testi e dal contenuto della sua lettera di giustificazione (doc. 38, pag. 2, punto 18). I motivi, tuttavia, difettano di autosufficienza, dal momento che la parte riporta solo stralci delle deposizioni che ritiene fondanti le sue censure, mentre non trascrive il contenuto della lettera di giustificazione, dal cui dovrebbe emergere la messa a disposizione del CD-ROM contenente tutti i dati cancellati.
21. Si richiamano qui i principi già espressi nei punti che precedono (sub 10 e 11), in tema di autosufficienza (cui adde, ex plurimis, Cass., 28 febbraio 2006, n. 4405; Cass., 28 giugno 2006, n. 14973; Cass., 21 luglio 2010, n. 17097).
22. A fronte della su descritta ricostruzione del quadro fattuale da parte dei giudici del merito, la valutazione della gravità degli addebiti e della loro idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, il quale per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, tale da comportare una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, deve valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra i fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare, definitivamente espulsiva (cfr. ex plurimis Cass. 4 giugno 2002 n. 8107; Cass., 8 settembre 2006, n. 19270; Cass., 26 aprile 2012, n. 6498; Cass., 25 maggio 2012, n. 8293).
23. Anche sotto tale profilo, il giudizio della corte appare congruo ed esaustivo; esso inoltre è sorretto dalle specifiche previsioni del C.C.N.L. il quale prevede la sanzione del licenziamento in caso di “grave violazione degli obblighi di cui all’art. 146, 1° e 2° comma, seconda parte” (art. 151) tra cui rientra “l’obbligo di conservare diligentemente le merci e i materiali dell’impresa” (artt. 146, comma secondo). Tale valutazioni in termini di gravità non può essere disgiunta dalla considerazione, pure rinvenibile in sentenza, del rilievo penale della condotta ascritta al lavoratore, sotto la specie del reato di danneggiamento di dati informatici previsto dall’art. 635 bis cod. pen., il quale deve ritenersi integrato anche quando la manomissione ed alterazione dello stato di un computer sono rimediabili soltanto attraverso un intervento recuperatorio postumo comunque non reintegrativo dell’originaria configurazione dell’ambiente di lavoro. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato in un caso in cui era stato cancellato, mediante l’apposito comando e dunque senza determinare la definitiva rimozione dei dati, un rilevante numero di file, poi recuperati grazie all’intervento di un tecnico informatico specializzato) (Cass. pen., ud. 18 novembre 2011, n. 8555, dep. 5 marzo 2012). 24. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e € 3500,00 per compensi professionali, oltre spese generali e oneri accessori come per legge. Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2015

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