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Cassazione Penale, Sez. 3, 17 marzo 2017, n. 13096 – Mancanza del casco antinfortunistico per i tre operai di cantiere

Fatto Diritto:
l. Il sig. MG.M. ricorre per l’annullamento della sentenza del 04/05/2015 del Tribunale di Cosenza che l’ha condannato alla pena di 1.800,00 euro di ammenda per il reato di cui agli artt. 18, comma 1, lett. d), 76, 77, comma 3, 87, comma 2, lett. d), d.lgs. n. 81 del 2008, a lui ascritto perché, quale amministratore unico della società <<PRO.COS.MOL. S.r.l.>>, esercente attività edile, non aveva fornito di idoneo casco antinfortunistico ciascuno dei tre operai presenti in cantiere, avendone a disposizione uno solo, peraltro scaduto; fatto contestato come commesso in Rende il 19/07/2012.
1.1. Con unico motivo eccepisce che la mera presenza di persone all’interno del cantiere non prova che stessero svolgendo attività lavorativa, né le mansioni eventualmente disimpegnate. L’utilizzo del casco, infatti, non è obbligatorio e ben può esserne sufficiente uno solo. Nel capo di imputazione, inoltre, manca ogni riferimento al d.lgs. n. 758 del 1994 che il Tribunale ritiene pure violato con conseguente mancata correlazione tra il fatto contestato e quello oggetto di condanna.
2.Il ricorso è inammissibile perché generico e manifestamente infondato.
3. Risulta dal testo della sentenza impugnata che personale ispettivo della Direzione Territoriale del Lavoro di Cosenza, a seguito di sopralluogo presso un cantiere edile della <<PRO.COS.MOL. S.r.l.>> ove erano in corso lavori di realizzazione di un centro direzionale, accertò la presenza (testualmente) <<di tre operai intenti al lavoro [che] avevano a disposizione un solo copricapo antinfortunistico peraltro scaduto>>.
3.1. La chiara e precisa affermazione circa il luogo dell’accertamento (un cantiere edile), il tipo di lavori in corso (realizzazione di un centro direzionale), la qualifica delle tre persone ad essi intenti (operai), ed il fatto stesso che vi fossero intenti, la successiva fornitura dei caschi da parte dell’imputato, rende inconsistente, in fatto prima ancora che in diritto, il dubbio genericamente sollevato dal ricorrente in ordine all’obbligo della fornitura dello specifico DPI e alla necessità che lo dovessero indossare tutti gli operai.
3.2.Occorre al riguardo evidenziare che secondo quanto prevede l’allegato VIII al d.lgs. n. 81 del 2008 (Indicazioni di carattere generale relative a protezioni particolari), punto 3.1 (ELENCO INDICATIVO E NON ESAURIENTE DELLE ATTIVITÀ E DEI SETTORI DI ATTIVITÀ PER I QUALI PUÒ RENDERSI NECESSARIO METTERE A DISPOSIZIONE ATTREZZATURE DI PROTEZIONE INDIVIDUALE), i lavori edili rientrano tra le attività che generalmente comportano la necessità di proteggere il capo e per le quali, quindi, è necessario l’elmetto protettivo, a prescindere dal fatto che il suo utilizzo sia specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi di cui all’art. 28, d.lgs. n. 81 del 2008 o dal concreto accertamento degli eventuali sinistri conseguenti alla sua violazione (in quest’ultimo senso, Sez. 3, n. 25739 del 15/03/2012, Trentini, Rv. 252977).
3.3. Il loro uso è imposto dalla inevitabilità del rischio individuale, non dal fatto che il rischio stesso sia o meno previsto dalle disposizioni aziendali in materia di sicurezza del lavoro (arg. ex art. 75, d.lgs. n. 81 del 2008).
3.4.Il contenuto dell’allegato VIII, cit., costituisce elemento di riferimento ai fini degli adempimenti imposti al datore di lavoro dall’art. 77, d.lgs. n. 81 del 2008, il quale, quindi, diversamente da quanto vuol sottintendere l’imputato, non gode al riguardo di alcun arbitrio (art. 79, d.lgs. n. 81 del 2008).
3.5. La possibilità dell’uso di un medesimo stesso casco da parte di più operai, non è argomento valido sia perché tale uso deve essere espressamente previsto e disciplinato secondo quanto prevede l’art. 77, comma 4, lett. d), d.lgs. n. 81 del 2008 (con conseguente genericità e astrattezza della relative deduzione), sia perché l’unico casco presente in cantiere non era nemmeno idoneo.
3.6. Del tutto stravagante è l’eccezione di violazione dell’art. 521, cod. proc. pen., posto che gli arrt. 20 e 21, d.lgs. n. 758 del 1994 sono correttamente richiamati dal tribunale solo per ribadire che il ricorrente non aveva oblato in via amministrativa la contravvenzione contestata, fatto quest’ultimo del tutto estraneo all’accusa.
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 2.000,00.

P.Q.M.:
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 17/01/2017.

FONTE: Cassazione Penale

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