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Cassazione Penale, Sez. 4, ud. 09 febbraio 2016 (deposito marzo 2016), n. 12683 – Caduta da una scala di legno a pioli. Lavori ad un’altezza superiore ai due metri in assenza di idonee protezioni

SentenzaFatto:
l. Il Tribunale di Lecce, Sez. dist. di Casarano, con sentenza emessa in data 22 febbraio 2012, dichiarava R.R. colpevole del delitto di cui all’art. 590 comma 3 c.p., commesso in località Matino, il 27 marzo 2007, ai danni dell’operaio suo dipendente V.S. e lo condannava alla pena di euro 1800 di multa.
Precisamente, la penale responsabilità dell’imputato veniva affermata per avere lo stesso, in qualità di legale rappresentante della Sipa Costruzioni srl, per negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza delle norme sulla prevenzione infortuni sul lavoro, cagionato al V.S. lesioni giudicate guaribili in oltre 40 giorni e consistite in “politrauma con frattura pluriframmentaria della clavicola sinistra e dell’ottava costa sinistra, trauma cranico commotivo con ferita lacero contusa parietoccipitale sinistra”.
In particolare, il R.R. veniva ritenuto responsabile di avere adibito il suddetto operaio a lavorare ad una altezza superiore a metri 2 dal pavimento in assenza di postazione di lavoro sufficiente e di idonee protezioni da cadute (art. 36 ter d.lgs. n. 626/94 e 16 d.P.R. n. 164/56), utilizzando invece una scala di legno a pioli, priva di elementi antisdrucciolo, poggiata alla parete dalla quale il detto V.S., perdendo l’equilibrio, precipitava al suolo.
2. La Corte di appello di Lecce con sentenza emessa in data 29 settembre 2014 confermava integralmente la pronuncia del giudice di primo grado.
3. Avverso la sentenza della Corte territoriale proponeva ricorso l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, articolando quattro motivi di doglianza.
3.1. Con il primo veniva dedotto violazione di legge processuale penale in relazione all’art. 530 comma 2 c.p.p.
Il ricorrente osservava che, da un lato, l’intero impianto accusatorio poggiava esclusivamente sugli accertamenti svolti dai funzionari dell’Ispettorato del Lavoro e in particolare sulla produzione dei rilievi fotografici; e, dall’altro, le dichiarazioni della persona offesa (che aveva riferito di aver utilizzato di sua iniziativa una scala presente nel capannone per svolgere il lavoro che gli era stato affidato) erano state totalmente trascurate, di talché avrebbe dovuto ravvisarsi quel ragionevole dubbio che avrebbe dovuto condurre ad un giudizio assolutorio ai sensi dell’art. 530 comma 2.
3.2. Con il secondo veniva dedotto vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’ipotesi di reato contestata.
Il ricorrente osservava che la Corte territoriale, nel fondare il suo convincimento sugli accertamenti svolti dai funzionari dell’Ispettorato del lavoro, non aveva sottoposto a valutazione la testimonianza resa dai testimoni dedotti dalla difesa (R.A. e S.A.) e dagli ispettori dell’ASL (dott. S. e dott. Sa.) ed aveva destituito di valore le dichiarazioni rese dalla persona offesa (che invece erano state poste a fondamento del processo motivazionale del giudice di primo grado), soprattutto in punto di altezza alla quale si trovava il V.S. al momento della caduta.
3.3. Con il terzo motivo veniva dedotto violazione di legge penale in relazione all’art. 132 e 133 c.p.
Al riguardo il ricorrente, dopo essersi soffermato sull’obbligo di adeguata motivazione da cui discende il noto principio della discrezionalità regolamentata nella determinazione della pena, deduceva che la Corte aveva irrogato una pena non congrua in ordine ai criteri stabiliti per legge, sia in punto di gravità del reato che in punto di capacità a delinquere dell’imputato.
3.4. Con il quarto motivo veniva dedotto vizio di motivazione in relazione all’affermata responsabilità penale ed alla mancata concessione delle attenuanti generiche.
Al riguardo, il ricorrente osservava che la Corte territoriale, da un lato, nel motivare in punto di affermazione di penale responsabilità, non aveva esaminato le doglianze difensive formulate in atto di appello e in particolare non aveva ritenuto necessario ascoltare i suoi familiari conviventi; e, dall’altro, in punto di trattamento sanzionatorio, non aveva indicato le ragioni ostative alla concessione delle attenuanti generiche, anche alla luce del suo comportamento complessivo, anche susseguente al verificarsi dell’infortunio per cui è processo.

Diritto:
l. Il ricorso non è fondato e, pertanto, deve essere respinto.
2.Non fondati sono i primi due motivi di ricorso, che, in quanto attinenti al giudizio di penale responsabilità dell’imputato, si esaminano congiuntamente al primo profilo di doglianza contenuto nel quarto motivo di ricorso.
2.1. Occorre in primo luogo precisare il perimetro del sindacato, ammissibile nella presente sede di legittimità.
Orbene, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità “deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali” (in tal senso, tra le tante, Sez. 3, sent. n. 4115 del 27.11.1995, 1996, Beyzaku, Rv. 203272).
Sotto altro profilo è stato precisato che la Corte di cassazione, nel momento del controllo di legittimità, non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Sez. 5, sent. n. 1004 del 30/11/1999, 2000, Moro, Rv. 215745).
Si deve infine ribadire, per condivise ragioni, l’insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale nessuna prova, in realtà, ha un significato isolato, slegato dal contesto in cui è inserita; occorre necessariamente procedere ad una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile; ed il significato delle prove lo deve stabilire il giudice del merito, non potendosi il giudice di legittimità sostituirsi ad esso (Sez. 5, Sent. n. 16959 del 12/04/2006, dep. 17/05/2006, Rv. 233464).
2.2. Precisato nei termini che precedono l’orizzonte dello scrutinio di legittimità, occorre rilevare che la congiunta lettura di entrambe le sentenze di merito – che, concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, valgono a saldarsi in un unico complesso corpo argomentativo (cfr. Cass., Sez. 1, n. 8868/2000, Sangiorgi, Rv. 216906) – evidenzia che i giudici di merito hanno sviluppato un conferente percorso argomentativo, relativo all’apprezzamento del compendio probatorio, che risulta immune da censure rilevabili dalla Corte regolatrice; e che il ricorrente invoca, in realtà, una inammissibile riconsiderazione alternativa del compendio probatorio, proprio con riguardo alle inferenze che i giudici di merito hanno tratto dagli accertati elementi di fatto, ai fini della affermazione della penale responsabilità.
Invero, il Giudice di primo grado – dopo aver analiticamente ripercorso tutte le risultanze emerse nell’espletata istruzione dibattimentale (ai punti 1 e 2) – ha ritenuto provata (ai successivi punti 3 e 4), anche con appropriati richiami alla giurisprudenza di legittimità, la sussistenza di una condotta omissiva (ascrivibile all’imputato) causalmente legata all’incidente sulla base: delle dichiarazioni rese dalla persona offesa V.S.; della documentazione sanitaria acquisita; delle dichiarazioni rese dal dr. S. e dal dr. Sa. (entrambi funzionari USL del servizio di sicurezza sul lavoro) in merito agli esiti del sopralluogo effettuato nell’immediatezza del fatto; dei rilievi fotografici effettuati in occasione del suddetto sopralluogo; del narrato dei lavoratori S.A. e R.A. (dedotti entrambi come testi dalla difesa). Il Giudicante ha significativamente osservato che: “la macroscopica omissione dell’osservanza delle norme antinfortunistiche da parte del datore di lavoro, ed in particolare la lapalissiana violazione delle più elementari norme di sicurezza … consentono di ritenere prevedibile e quindi evitabile anche il rischio dell’imprudenza del V.S.”.
D’altra parte, la Corte territoriale ha confermato integralmente la sentenza del giudice di primo grado, osservando: che era risultato provato che il V.S. era salito sulla scala a pioli e che detta scala era sprovvista dei più elementari dispositivi antifortunistici; che dalla visione della foto n. 6 (e dal particolare indicato in quelle immediatamente precedenti circa la mancanza di segni della malta sui pioli dove era posizionato il V.S.) si desumeva che lo stesso si trovasse ad una altezza superiore ai 2 metri (peraltro compatibile con quella della parete da intonacare e con il lavoro già svolto); che il datore di lavoro è responsabile anche degli infortuni ascrivibili a imperizia, negligenza o imprudenza del lavoratore, salvo il caso di assoluta abnormità del comportamento di quest’ultimo (caso che nella specie non ricorreva, essendosi il V.S. limitato ad approfittare di una scala a pioli, non a norma, esistente presso il cantiere, dove era stato chiamato a espletare la sua attività lavorativa).
2.3. In definitiva, la Corte di merito ha chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto di confermare la valutazione espressa dal primo giudice, sviluppando un percorso argomentativo che non presenta aporie di ordine logico e che risulta perciò immune da censure rilevabili in questa sede di legittimità.
3. Infondati sono anche il terzo motivo di ricorso ed il secondo profilo di doglianza contenuto nel quarto motivo, che qui si trattano congiuntamente, in quanto relativi al trattamento sanzionatorio.
Come noto, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Suprema Corte non solo ammette la c.d. motivazione implicita (Sez. 6, 4/7/2003 n. 36382, Dell’Anna ed altri, n. 227142) o con formule sintetiche (tipo “si ritiene congrua”: Sez. 6, sent. N. 9120 del 2/7/1998, Urrata, Rv. 211583), ma afferma anche che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Sez. 3, sent. n. 26908 del 22/4/2004, Ronzoni, Rv. 229298).
Detta evenienza che non ricorre nel caso di specie, nel quale:
– il giudice di merito di primo grado, nel determinare la pena al di sopra del minimo edittale e nell’escludere le attenuanti generiche, ha sottolineato la “notevole gravità” del fatto, “tenuto conto del grado elevato della colpa, in ragione della effettuazione dei lavori in completa mancanza della verifica statica della scala, con connessa valutazione dei rischi, pur nella piena consapevolezza della necessità di effettuare lavori in elevato, che rendeva agevolmente prevedibile il rischio di sbandamento”;
– la Corte territoriale, nel confermare il trattamento disposto dal giudice di primo grado, ha rilevato che all’imputato era stata irrogata la sola pena pecuniaria, indice questo del fatto che erano state tenute “in debita considerazione le circostanze del caso concreto”.
Per tutte le ragioni che precedono il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 09/02/2016

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